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IL PASSAGGIO GENERAZIONALE

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IL PASSAGGIO GENERAZIONALE

a cura di Gianpaolo Baiocchi – Partner srl

PREFAZIONE

Vorrei riflettere con voi su un tema che ho avuto modo di affrontare decine di volte negli ultimi 15 anni (la quasi totalità dei miei interventi nelle piccole e medie imprese aveva, quale più, quale meno, questa caratteristica): il Business Transfer, o Passaggio Generazionale. NON È UN’ANALISI SCIENTIFICA, MA UNA RIFLESSIONE SU MOLTE ESPERIENZE VISSUTE, anche se l’ovvia riservatezza mi impedisce di fare riferimenti precisi. E non rifletto sotto il profilo giuridico (strutture societarie e successione), ma sotto quello dei rischi, delle manifestazioni ricorrenti, delle risorse e delle prassi di intervento.

Chiarisco però subito un punto: c’è una sociologia univoca e strutturata del Passaggio Generazionale? No, ed anche se ci fosse, delle macrocategorie ci sarebbero d’aiuto nell’analisi dei fenomeni (nella diagnosi, diciamo). Ma quando si passa alla terapia, la variabilità delle prassi, per le ragioni che cercherò di spiegare, è talmente ampia, che categorizzarle sarebbe un esercizio ozioso ed improduttivo.

LE PECULIARITÀ DEL PASSAGGIO GENERAZIONE NELLE IMPRESE E LE DIMENSIONI DEL PROBLEMA

La forma familiare non è una peculiarità italiana: in tutti i Paesi capitalistici le piccole imprese nascono, ovviamente, come imprese individuali o familiari, ma poi spesso, o per difficoltà nella successione, a puro scopo di lucro o per cambiamento degli interessi, si monetizza subito il successo (tipico il caso delle start-up innovative), oppure privati e fondi d’investimento, che hanno la propensione ad investire in queste imprese, fanno perdere loro la forma familiare.

Quello che è assolutamente italiano è che la correlazione tra dimensioni e forma familiare non c’è, soprattutto fino al livello di media impresa incluso: anche imprese con decine o centinaia di milioni di fatturato, alcune centinaia di dipendenti ed internazionalizzate continuano ad avere una forma – ed una sostanza – familiare. Del resto anche il grande capitalismo familiare italiano (Agnelli, Olivetti, Mondadori, Ferruzzi, Merloni etc.) ha cercato di sottrarsi, con alterne fortune, a questa condizione.

È inoltre basso – anche per i limiti strutturali del mercato finanziario italiano – il ricorso a finanziamento diverso da quello tradizionale bancario, con i soliti fidi a breve e finanziamenti ipotecari.

Ci interessa inoltre che, particolarmente nei Distretti Industriali italiani, per la loro stessa natura, c’è stata una sovrapposizione quasi totale tra imprese esistenti (o estinte, purtroppo) e forma familiare, che nell’appartenenza ad una filiera consolidata, con i suoi rapporti personali e di fiducia, trova la sua esaltazione.

I dati parlano da soli circa i rischi: secondo studi della Confindustria Marche, il rischio sistemico riguarda in questa Regione circa 25.000 imprese, che per 2/3 riceveranno un colpo gravissimo dal mancato passaggio, sboccando nella vendita o nella chiusura. Ed è complicato vendere un’azienda in cui tutto il know how sia concentrato nella testa della famiglia cedente, ed in cui la bassa marginalità venga compensata con l’abnegazione della proprietà; e che per queste ragioni non è attraente per un acquirente che guarda non soltanto al ROI ed al ROE, ma anche alla continuità ed allo sfruttamento di posizioni di mercato.

La crisi delle aziende italiane dal 2008 in poi, e le innumerevoli estinzioni, hanno in parte mimetizzato il fenomeno, che però c’è, incombe, e non può che essere ingrandito dalle tendenze in atto.

Una cosa ho notato nei miei interventi: che non c’è una correlazione netta tra difficoltà aziendali (riduzione del margine, soprattutto) ed “asfissia” da forma familiare.

Alle difficoltà produttive e di mercato, se ne sommano altre che, ignorate o rinviate per anni, arrivano al pettine ed accelerano una crisi che, se non gestita, può arrivare – ed effettivamente arriva, nella quasi totalità dei casi – all’estinzione in varie forme dell’azienda. Sono difficoltà che sfuggono alla pura analisi economico-finanziaria, produttiva e commerciale. E che bisogna invece saper riconoscere e gestire. Vediamone alcune.

  1. L’azienda viene vissuta dai fondatori come una propaggine della propria personalità (a volte, il cognome è direttamente nella ragione sociale o nei marchi: cosa di più personale?). Se poi, come spesso avviene in aziende di prima o seconda generazione, si tratta di imprenditori self made, scarsamente scolarizzati, di grande intelligenza e reattività, di enorme capacità di sacrificio, questa identificazione diventa spesso una ragione di vita, letteralmente. Il problema è che le nuove generazioni che entrano in azienda non hanno vissuto così, e NON SONO COSÌ. Gli appartenenti alle cosiddette Generazioni X ed Y sono differenti dai loro predecessori, molto più di quanto essi lo fossero a loro volta dai loro. Valori, aspettative, stili di vita, voglia di scommettere sono diversi, e quando le analisi sociologiche su campioni rilevanti ci restituiscono in modo evidente questa diversità, non si tratta evidentemente di “quel” figlio o nipote, ma di una generazione. ED OCCORRE FARSENE UNA RAGIONE.
  2. Ho osservato un altro fenomeno ricorrente. Al momento in cui si manifestano segnali di crisi dell’azienda, sia di riduzione delle vendite o dei margini, sia al contrario di sovrasaturazione della capacità produttiva, le nuove generazioni tendono ad addossare la responsabilità a quelle precedenti. Cosa in sé ovvia, ma che crea una ulteriore tensione perché i giovani “devono ancora dimostrare”. E le caratteristiche generazionali di cui al punto 1. non aiutano.
  3. C’è una differenziazione tra i giovani che si sono formati professionalmente in azienda, e quelli che hanno avuto altre esperienze, o una formazione prolungata (laurea, master etc). Nel secondo caso, la differenza tra quanto appreso (quasi sempre in pura teoria, peraltro) e quanto praticato, è spesso netta e stridente, e provoca reazioni di insofferenza se non di rifiuto.
  4. A volte c’è un rifiuto, palese o dissimulato, ad impegnarsi nell’azienda familiare: e non è soltanto una questione di interessi economici. Non è banale ricordare che spesso i problemi aziendali si riverberano sul clima familiare, e viceversa. E, in presenza di altre alternative valide per il proprio futuro, gli “eredi” possono rifiutare di impegnarsi.
  5. In presenza di più famiglie nella proprietà e direzione dell’azienda, il punto 2. diventa sovente lo schieramento per “partiti” in due o più campi, con un aggravamento della tensione.

LA NECESSITÀ DI UN INTERVENTO PROFESSIONALE

Ora tiriamo una prima conclusione. DI FRONTE AD UN FENOMENO COSÌ COMPLESSO, LE MEZZE MISURE, I PROVVEDIMENTI ESTEMPORANEI, IL “FAI DA TE” NON FUNZIONANO. Il vecchio adagio che chi ha causato il danno deve porvi rimedio non funziona. Per varie ragioni.

  1. Il coinvolgimento psicologico rende meno oggettive le scelte.
  2. Il Passaggio Generazionale deve coincidere con un ripensamento abbastanza radicale dell’azienda, perché non è un fatto anagrafico, ma strutturale. Il Passaggio deve essere l’occasione per il ridisegno dei macro processi aziendali e di una nuova struttura economico finanziaria e commerciale (a volte anche statutaria), e deve coincidere con esso.
  3. Se è vero il punto 2. LE COMPETENZE SPECIFICHE E PLURIME NON SI TROVANO IN AZIENDA, men che mai se è relativamente piccola.

LINEE GUIDA PER UN INTERVENTO

Occorre chiarire un concetto: UN PASSAGGIO GENERAZIONALE, IN TEORIA, NON HA NULLA DI DIVERSO DA UN “NORMALE” REENGINEERING DELL’AZIENDA. Nemmeno sotto l’aspetto umano. L’unica differenza, come dice la vecchia battuta, è che un imprenditore non può licenziarsi, o essere licenziato, dalla sua azienda. E che tra le Risorse Umane vi sono vincoli di parentela ed affettivi, che sono, appunto, anche “vincoli” nell’altro significato del termine.

Innanzitutto, occorre una fase di analisi accurata, di tipo polispecialistico, commissionata da figure di Sponsor e Driver interni all’azienda ben connotate, con le quali stendere un “patto”, e di cui valutare la determinazione: esitazioni e dubbi di fondo dei committenti, che emergano ad intervento iniziato, portano nella mia esperienza ad un esito infausto.

Io, personalmente, al primo incontro, chiedo che mi vengano spiegati i flussi dei macroprocessi aziendali. Immancabilmente mi viene portato l’organigramma statico dell’azienda, che io definisco “il layout delle scrivanie”, e che respingo cortesemente. Posso assicurare che l’effetto è notevole, e genera l’interesse e la curiosità senza i quali non si va avanti.

Sommariamente, le fasi successive sono di norma almeno le seguenti:

  1. Checkup di tipo economico finanziario, e di mercato di pertinenza, consistenza del know how produttivo e commerciale, e dettaglio dei punti di miglioramento; particolare rilevanza ha l’analisi degli stakeholder; questi pacchetti li abbiamo, e funzionano.
  2. Analisi del clima delle persone coinvolte, sia familiari che collaboratori chiave (che spesso hanno capito la situazione meglio dei titolari), che i consulenti aziendali di fiducia: i colloqui individuali, protetti nella forma e nella sostanza dalla riservatezza, servono sia a conoscere meglio la situazione, sia a creare una prima “alleanza” tra il Consulente ed i soggetti interessati.
  3. Intervento formativo ad hoc sulla revisione dei processi e sulle deleghe, che ha anche la funzione di far confrontare liberamente le parti in causa, di appianare conflitti in corso, di “fare squadra”, non accettando che si formino tribunali sulle responsabilità passate, ma tenendo ben stretto il confronto sui terreno dei problemi organizzativi.
  4. Eventuale formazione ad hoc, anche esterna, per singole figure o funzioni.
  5. Scrittura meticolosa delle deleghe: Job Description e metodi di Controllo.
  6. Fase di accompagnamento nell’implementazione di quanto deciso, durante la quale occorre essere preparati ad affrontare ripensamenti, crisi di fiducia reciproca, difficoltà che non erano emerse, oltre che ovviamente agli eventi che possono imprevedibilmente verificarsi nella normale vita aziendale, ma che in una fase di passaggio trovano un “organismo” più debole.

Una linea rossa attraversa tutte queste fasi, a partire da quella formativa: UN PATTO GENERAZIONALE, CIOÈ ALL’INTERNO DELLA NUOVA GENERAZIONE E TRA LE GENERAZIONI (tralascio qui gli aspetti giuridici e successori), ESPLICITO E SEMPRE RICHIAMATO. Questo Patto, nel corso dell’intervento, può traballare, essere insufficiente e da migliorare, far emergere tensioni e conflitti prima inespressi: ma, per la mia esperienza, senza il Patto è impossibile svolgere decentemente la propria funzione di Consulente in materie tanto delicate.

CONSIDERAZIONI METODOLOGICHE

Esiste la possibilità di metodizzare e modellizzare questo tipo di interventi? La risposta non è univoca.

Ovviamente, i checkup aziendali sono da tempo processi / prodotti strutturati e questa parte può essere “impacchettata” e sufficientemente standardizzata.

Ma un intervento sul Passaggio Generazionale incide non soltanto sulle aziende, ma anche sulle situazioni umane e familiari, e questa parte del “pacchetto” è a geometria molto variabile, e va fortemente personalizzata: e quindi avrà dimensioni e profondità CHE SARANNO DEFINITIVAMENTE CHIARE DOPO CHE L’INTERVENTO SARÀ INIZIATO.

Inoltre questa parte comporta competenze particolari:

  1. Sicuramente competenze sulle dinamiche sociali nelle piccole comunità
  2. Sicuramente competenze sui reali processi aziendali
  3. Sicuramente esperienza di vita aziendale e di relazioni umane complesse
  4. Sicuramente sangue freddo e capacità di non farsi coinvolgere emotivamente. Io personalmente ho una ricca casistica di tentativi di farmi schierare, sempre fermamente respinti sulla base di una mia convinzione: che un’impresa è un bene sociale, e la stella polare di un Consulente non deve essere puramente la conservazione di un patrimonio, ma anche la sopravvivenza e continuità dell’azienda, la capacità di produrre reddito, valori e – perché no – vita gratificante per chi ci opera.

Spero che queste riflessioni abbastanza estemporanee inducano una discussione “tecnica”. Ma, in definitiva, come diceva per altri contesti Federico il Grande di Prussia, questo aspetto del nostro mestiere non è soltanto Scienza e Tecnica, ma anche Arte. E, come in tutte le Arti, c’è qualcosa di ineffabile.